BROCHURE BALBUZIE

Di seguito, i link da cui poter scaricare le brochure informative per insegnanti e pediatri, relative al progetto di tesi sulla balbuzie a cura di Alisea Attardo, della dott.ssa Arianna Bortoluzzi e della dott.ssa Lucrezia Gaiba.

 

Se possibile, chiediamo di compilare il seguente questionario di gradimento del progetto, volto a migliorare ulteriormente il materiale informativo. 

LA BALBUZIE: 8 DOMANDE E… 7 RISPOSTE

Fra i disturbi dello sviluppo di cui ci occupiamo nel nostro Centro trova spazio anche la balbuzie, disturbo multifattoriale che, in quanto tale, richiede una presa in carico globale del bambino/ragazzo che la manifesta e del suo ambiente di vita.

La balbuzie fa parte dei disturbi della comunicazione (DSM V). Si manifesta in età prescolare (entro i 6 anni), tipicamente attorno ai 3 anni. La persona che balbetta sa esattamente ciò che vuole dire ma non è in grado di esprimerlo in modo fluente a causa del presentarsi di involontarie disfluenze (interruzioni nel normale fluire dell’eloquio). Tali disfluenze non sono “tipiche” (uso di “ehm”, “mmm”, riformulazione della frase) ma sono “atipiche” (blocchi, ripetizioni, prolungamenti),  e sono accompagnate da tensione udibile o visibile (es. contrazioni della muscolatura facciale).

La balbuzie è un disturbo complesso, “vecchio” di migliaia di anni (“La balbuzie ha l’età dell’uomo…”*) ma in realtà ancora nuovo e sconosciuto per molti aspetti.

Di balbuzie si sente parlare spesso anche nel linguaggio comune, per descrivere una modalità comunicativa poco fluida, legata a momenti di forte emotività; essendo un termine utilizzato anche nel quotidiano per riferirsi ad un “modo di parlare” in determinate situazioni, è essenziale fare chiarezza su di esso in quanto, in realtà, fa riferimento ad un quadro patologico di forte impatto sulla persona che lo presenta.

Per fare ciò, riporteremo in questo breve articolo otto domande  che nel corso della nostra esperienza con la balbuzie ci sono state rivolte da genitori, bambini, ragazzi, insegnanti, e… sette risposte basate sulle evidenze scientifiche più attuali in materia.

“Dalla balbuzie si può guarire?”

La prima domanda che ci viene rivolta riguarda spesso la prognosi della balbuzie. Per rispondere a questa domanda solitamente facciamo due riflessioni. Innanzitutto, il termine “guarigione” prevede la presenza di una “malattia”, e questo disturbo, come tutti i disturbi del neurosviluppo, non è una malattia bensì una condizione geneticamente determinata. Da questo primo punto deriva la seconda riflessione: la balbuzie è un disturbo a base genetica, una caratteristica che l’individuo presenta nel proprio corredo genetico, come ad esempio il colore degli occhi… Si può, dunque, “guarire” dagli occhi marroni?

“Se non si può guarire dalla balbuzie, perché lavorarci?”

Solitamente, dopo la prima domanda ci viene rivolta questa seconda domanda, assolutamente lecita. I motivi per cui è importante lavorare sulla balbuzie sono due: la presa in carico precoce in età prescolare favorisce la remissione del disturbo; la presa in carico in età scolare, quando per lo più tale disturbo si è strutturato in modo definitivo, è atta a migliorarne la sintomatologia e, ancor più importante, la visione della persona, favorendo il passaggio da “balbuziente” a “persona con balbuzie”.

“La balbuzie è provocata da un trauma psicologico?”

Questa domanda molto frequente trova risposta ancora una volta nella definizione di balbuzie. Essendo questo un disturbo geneticamente determinato, un qualsivoglia evento psicologico non può essere causa diretta di balbuzie. E’ altresì innegabile che l’emotività gioca un ruolo cruciale nel mantenimento della balbuzie e nella sua manifestazione in termini quantitativi (una persona che balbetta tende a farlo di più in situazioni di forte carico emotivo).

“Mio figlio balbetta ma è piccolo e non se ne rende conto… Ha senso iniziare un trattamento o esso può renderlo consapevole del problema e peggiorare la situazione?”

Non sempre la consapevolezza di balbettare comporta una verbalizzazione della difficoltà da parte del bambino o comportamenti di evitamento della comunicazione. In altre parole, non è detto che un bambino che non parla della propria balbuzie o che da essa non viene limitato non sia ancora consapevole. E’, invece, dimostrato che un intervento precoce favorisce un miglioramento della prognosi.

A scuola mio figlio potrà essere aiutato?”

La scuola è uno degli ambienti di vita fondamentali per i bambini/ragazzi: per questo motivo, anche la scuola deve essere inclusa nel progetto riabilitativo dei ragazzi con balbuzie, attraverso incontri di counseling che forniscano agli insegnanti nozioni generali sull’argomento, informazioni specifiche sui piccoli pazienti e strategie per sostenerli nella loro espressione comunicativa.

“Mio figlio in età prescolare balbetta… Continuerà a balbettare una volta cresciuto?”

A questa domanda non è possibile fornire una risposta definitiva: non possiamo prevedere con certezza l’evoluzione della balbuzie; tuttavia, esistono dei fattori di rischio che possono aiutarci nell’ipotizzare il rischio di cronicizzazione (ovvero di mantenimento della balbuzie nel tempo). Inoltre, una elevata percentuale di bambini che balbettano in età prescolare presenta un recupero spontaneo entro i 6 anni: anche in questo caso, sono i fattori di rischio ad esserci d’aiuto nel cercare di individuare chi è maggiormente a rischio di mantenere la balbuzie (ed è quindi un buon candidato per un intervento diretto) e chi, invece, può essere monitorato nel tempo.

“La balbuzie viene trattata solo dal logopedista?”       

La balbuzie, come detto in precedenza, è un disturbo multifattoriale, che chiama in causa diversi piani (linguistico, motorio, emotivo, sociale, cognitivo, affettivo secondo il modello “CALMS” di Charles Healey): la presa in carico di un disturbo così complesso coinvolge necessariamente un’equipe multidisciplinare.

Quali sono in pratica le cose che posso fare con mio figlio?”

Questa è l’ultima domanda a cui… non diamo risposta in questo articolo!

Ogni bambino è a sé, ogni persona con balbuzie è a sé perché in essa le componenti del modello citato in precedenza si armonizzano in modo unico. Questo fa sì che il percorso di ogni singolo paziente debba essere costruito ad hoc impegnando attivamente il bambino/ragazzo, la famiglia, i terapisti, la scuola e tutti i contesti di vita del paziente, per determinare un miglioramento non solo del sintomo-balbuzie ma anche del vissuto-balbuzie.

Arianna Bortoluzzi, logopedista Piccolo Principe

BIBLIOGRAFIA

Florio, P., Bernardini, S. (2014). Balbuzie: assessment e trattamento: Modelli di intervento cognitivo in ottica ICF. Erickson

Pertijs, M.A.J., Oonk, L.C., Beer, de J.J.A., Bunschoten, E.M., Bast, E.J.E.G., Ormondt, van J., Rosenbrand, C.J.G.M., Bezemer, M., Wijngaarden, van L.J., Kalter, E.J., Veenendaal, van H. (2014). Clinical Guideline Stuttering in Children, Adolescents and Adults. NVLF, Woerden

Tomaiuoli, D. (2015).  Balbuzie: Fondamenti, valutazione e trattamento dall’infanzia all’età adulta. Erickson

*Martina De Meis, in Tomaiuoli, 2015

BILINGUISMO E SVILUPPO DEL LINGUAGGIO

Generalmente essere bilingui non si riduce esclusivamente alla capacità di parlare due lingue, ma consiste nel possedere capacità verbali e comunicative nelle due lingue per esposizione ad esse (Contento, Melani e Rossi, 2010).

Se l’esposizione è precoce…

L’esposizione a due lingue fin dalla nascita o a partire da fasi precoci dello sviluppo (entro i 3 anni), non costituisce un fattore di rischio per lo sviluppo del linguaggio. Al contrario si è osservato il fenomeno del “bootsrapping” ovvero una condivisione di conoscenze linguistico-concettuali tra le due lingue che permette ai bambini bilingui di non essere “indietro” del 50% rispetto ai monolingui pur ricevendo metà dell’esposizione in una delle due lingue.

Se l’esposizione è tardiva…

Il quadro si presenta più complesso quando l’acquisizione della seconda lingua (L2) è successiva ai tre anni. Patton Tabors (2008), pur tenendo conto della variabilità dovuta alle differenze interindividuali tra bambini, ha identificato quattro stadi di sviluppo della L2.

  • I STADIO: i bambini sembrano utilizzare la L1, anche se nessuno all’interno dell’ambiente in cui si trovano utilizza e comprende la loro lingua. Questo periodo è molto breve.
  • II STADIO: si osserva un periodo non verbale dove i bambini accumulano conoscenze recettive della L2, ma producono poche o nessuna parola della nuova lingua.
  • III STADIO: “formulaic language” dove i bambini utilizzano espressioni convenzionali (es. non lo so, scusami, ecc.) o enunciati brevi e imitativi che gli permettono di iniziare a parlare la L2 e, allo stesso tempo, di dare l’impressione di conoscere la seconda lingua.
  • IV STADIO: i bambini iniziano a costruire frasi originali utilizzando nomi, verbi e aggettivi.

Quando i bambini raggiungono il IV stadio iniziano ad utilizzare la seconda lingua in modo più efficace, ma non sono ancora assimilabili ai pari madrelingua. Infatti, possono pronunciare le parole in modo errato e compiere errori nella scelta delle parole o nella costruzione delle frasi.

Una domanda frequente rispetto a questi bimbi è “Quanto tempo serve affinché possano essere assimilabili ai compagni monolingui nella seconda lingua?”  

È ampiamente condiviso che per quanto riguarda la fonologia i bambini bilingui necessitino fino a due anni di esposizione prima di essere assimilabili ai coetanei madrelingua (Paradis et al., 2011) e che rispetto allo sviluppo morfosintattico possano volerci dai tre ai cinque anni (Jia e Fuse, 2007; Paradis, 2008). Rispetto all’acquisizione del vocabolario, invece, le ricerche disponibili attestano che vi sia bisogno di molto tempo affinché i bambini L2 abbiano un vocabolario ampio e complesso quanto i bambini monolingui e che, talvolta, la distanza non si colmi mai (Oller e Eilers, 2002; Golberg, Paradis, Crago, 2008).

Nonostante l’accuratezza grammaticale, l’ampiezza del vocabolario e la pronuncia non siano equiparabili a quella dei pari parlanti nativi per diversi anni, questi bambini possono diventare buoni comunicatori anche dopo pochi mesi di esposizione alla L2. Diversamente, invece, sono necessari almeno 5-7 anni per padroneggiare quegli aspetti della lingua che risultano importanti per la scolarizzazione.

Essere bilingui: un vantaggio!

Essere bilingui è stato oramai ampiamente dimostrato che costituisce un vantaggio da un punto di vista cognitivo. Infatti numerosi studi hanno evidenziato una maggiore flessibilità cognitiva nei bilingui (Bialystock, 1999). Inoltre altre ricerche hanno osservato maggiori capacità dei bambini bilingui in compiti di problem solving e creatività (Kessler, Quinn, 1980; Lee, Kim, 2011). Il bilinguismo, quindi, parrebbe costituire un possibile fattore protettivo per lo sviluppo cognitivo e quindi è importante valorizzarlo anche incoraggiando il mantenimento della lingua madre (L1)  fin dalla prima infanzia.

 

Nonostante ciò si assiste, parallelamente, ad un aumento delle richieste di cura di questi bambini per motivi legati a difficoltà linguistiche e d’apprendimento (Contento, 2010). Di fronte ad un bambino bilingue sono tanti i fattori da tenere in considerazione e non sempre le difficoltà che si osservano sono da considerarsi sintomo di difficoltà specifiche. Ad esempio davanti ad un bambino che ha terminato la II primaria ed è stato esposto all’italiano a partire dai 5 anni, elementi come una lettura lessicale fragile/deficitaria ed errori in scrittura, ascrivibili ad influenze fonetico-fonologiche della lingua madre, non vanno considerati campanelli d’allarme di difficoltà specifiche d’apprendimento quanto, piuttosto, funzionamenti in linea con la storia linguistica del bambino.
Le variabili da prendere in considerazione rispetto allo sviluppo linguistico e all’apprendimento scolastico dei bambini bilingui sono molteplici e tra esse alcune delle più importanti sono:  l’età di prima esposizione alla L2, la quantità e qualità d’esposizione, l’intelligenza non verbale, la struttura della L1 e L2 e fattori emotivo-motivazionali.

Per non rischiare di preoccuparsi eccessivamente o, al contrario, di sottovalutare le difficoltà osservate è bene rivolgersi a professionisti che conoscano le traiettorie di sviluppo di questi bambini e che utilizzino un approccio dinamico che tenta di misurare il potenziale di apprendimento del bambino bilingue attraverso un metodo test-teach-retest riducendo, così, il rischio di sovra o sotto identificazione.

Paola Ferraresi – Psicologa Piccolo Principe Ferrara

Per ulteriori approfondimenti:

  • Bonifacci, P. (2018) (a cura di). I bambini bilingui. Favorire gli apprendimenti nelle classi multiculturali. Roma Carocci Editore.

  • Abdelilah-Bauer, B. (2017). Guida per genitori di bambini bilingui. Raffaello Cortina Editore.

Il ritardo del linguaggio

Cos’è il Ritardo di Linguaggio?

Un “rallentamento” dello sviluppo linguistico del nostro bambino, che quindi prevede un linguaggio che attraversa le stesse fasi dei bambini con sviluppo tipico ma con tempi diversi. Nella letteratura, si definiscono parlatori tardivi i bambini di età compresa tra i 24 e i 36 mesi con un ritardo nel vocabolario espressivo, in assenza di deficit neurologici, sensoriali, cognitivi e di deprivazione ambientale.
A quest’età, infatti, la maggior parte dei bambini utilizza il linguaggio come strumento
privilegiato per comunicare e costruire conoscenze sul mondo. Ciò nonostante, esiste una grandissima variabilità linguistica tra i bambini.


Evoluzione?

Il ritardo di linguaggio è una condizione abbastanza frequente, che caratterizza il 10-19% dei bambini di 24 mesi. Spesso rappresenta una fase transitoria: il 50% dei parlatori tardivi infatti dimostra a 36 mesi di aver risolto il ritardo di linguaggio, recuperando il gap con i coetanei e normalizzando le competenze linguistiche. Solo nel 3% dei casi il problema permane, evolvendo in un vero e proprio Disturbo Specifico di Linguaggio. In alcuni di loro persisterà oltre i 6 anni traducendosi, con l’ingresso a scuola, in un Disturbo dell’Apprendimento della letto-scrittura.

Fattori di rischio per un’evoluzione negativa del ritardo di linguaggio?

Tra i fattori di rischio segnalati in letteratura si possono trovare:
• familiarità per problemi del linguaggio e dell’apprendimento
• sesso (netta prevalenza nei maschi)
• otiti ricorrenti nei primi anni di vita
• nascita pre-termine e basso peso alla nascita
• ritardo motorio

Quando allarmarsi?

Di seguito si riportano le principali tappe di sviluppo della comunicazione e del linguaggio dai 6 ai 24 mesi. Si elencano quelli che potremmo definire “campanelli d’allarme” quindi alcune abilità la cui assenza potrebbe costituire un indice di rallentamento nell’acquisizione di queste competenze.

Dai 6 mesi il bambino:

  • Produce consonanti come P/B/M
  • Utilizza vocalizzi per esprimere dispiacere, rabbia ed eccitazione
  • Imita alcuni movimenti ed espressioni facciali (es. sorridere e accigliarsi)

Quando allarmarsi:

  • Non si volta verso un suono o la voce
  • Non sorride spontaneamente

 

Dai 9 mesi il bambino:

  • Risponde ai suoni emettendo suoni o movimenti

Quando allarmarsi:

  • Non produce nessuna consonante  
  • Non ricambia vocalizzi o espressioni facciali

 

Dai 12 mesi il bambino:

  • Indica oggetti nelle vicinanze e mostra di condividere l’interesse
  • Pronuncia le prime parole (es. mamma, papà, acqua,…)

Quando allarmarsi:

  • Non risponde al proprio nome
  • Non imita i suoni
  • Non condivide l’attenzione (“Guarda, c’è…”)

 

Dai 18 mesi il bambino:

  • Usa abilità comunicativo complesse integrando gesti, vocalizzi e contatto oculare (es. guarda il genitore mentre prende la sua mano per portarlo verso un gioco desiderato)
  • Da avvio all’attenzione congiunta (es. Indica per mostrare agli altri una cosa interessante)

Quando allarmarsi:

  • Non guarda verso un oggetto che viene denominato
  • Non riesce ad usare nessuna parola
  • Mancanza di combinazione di parole e gesti

 

Dai 24 mesi il bambino:

  • Presta attenzione ad un libro
  • Inizia a combinare le prime parole (es. io palla, bimba bella)
  • Esplosione del vocabolario

Quando allarmarsi:

  • Molto meno del 50% di quello che dice è comprensibile
  • Assenza di combinatorie a 30 mesi

 

In presenza di questi campanelli d’allarme è bene tenere monitorato lo sviluppo comunicativo e linguistico del bambino.

In particolare, se il bimbo a 24 mesi non è in linea con i suoi coetanei, è consigliabile consultare uno specialista per avere informazioni sulle strategie di stimolazione del linguaggio da usare in ambiente domestico, svolgere eventuali approfondimenti con indagini specifiche o, se necessario, iniziare un trattamento riabilitativo.

 

Lucrezia Gaiba e Jessica Grigoli,

logopediste SCS Piccolo Principe Ferrara

I dati riportati nell’articolo sono stati tratti da:

  • Primo vocabolario del bambino, Caselli et al, 2015
  • Classificazione Diagnostica della Salute Mentale e dei Disturbi di Sviluppo nell’Infanzia, ed. italiana a cura di Maestro e Muratori, 2018